#LAlberodelleIdeeStorie: Il charleston

Il charleston è un ballo di derivazione jazzistica (che si collega al rag time) diffusosi intorno agli anni venti, prima in America e poi in Europa. Di andamento veloce e brillante, ha ritmo sincopato in 4/4. Il charleston è senza dubbio il più brioso, gaio e scoppiettante ballo dell’epoca moderna. Per la sua struttura, si stacca nettamente da tutti gli altri balli, possedendo una personalità inconfondibile ed inimitabile.

La nascita del Charleston - Artista News

Deve il suo nome alla città di Charleston, nella Carolina del Sud. Divenne popolare negli Stati Uniti nel 1923 grazie alla canzone The Charleston di James P. Johnson. Tutti ricordano la magnifica scena del Gattopardo come qualcosa di più che un semplice giro di valzer, come una delle espressioni di un certo tipo di società. E lo stesso si può dire del celebre Cotton club di Coppola: in questo film lo snodarsi delle vicende è scandito dal ritmo del tip tap e del charleston che fanno da sfondo alla New York dei tempi del proibizionismo. Gli anni venti erano quelli di Al Capone, delle sparatorie tra bande di gangster e dei fumosi club dove spesso, come nel film, qualcuno moriva a ritmo di claquette. Ma erano anche gli anni dell’old jazz, delle donne con il caschetto e i cappellini a cloche, dei primi abiti corti, con la vita bassa e la gonna plissettata, delle grosse Ford dalle quali scendevano le ingioiellate signore che si recavano a ballare il charleston. Tra i balli di derivazione jazzistica in voga in quel periodo il charleston era il più scatenato (il tip tap si sarebbe esteso al grande pubblico solo a partire dagli anni trenta): i movimenti che lo caratterizzavano erano così frenetici e la musica d’accompagnamento così sfrenata che qualcuno malignamente arrivò a definirlo “il ballo degli epilettici”. La carica istintiva della musica jazz, unita all’eccentricità dei passi, dovette infatti sembrare ai benpensanti, più che una liberazione dagli schemi precedenti in nome di una nuova spontaneità, una sorta di delirio collettivo. Non potevano certo immaginare che il charleston era solo il punto di partenza di un’evoluzione del ballo – o meglio, di una rivoluzione – che, nata dall’incontro con la musica afro-americana, avrebbe generato nell’arco di qualche decennio fenomeni quali il boogie woogie e il rock’n’roll.

Stage di Charleston per gli amanti del ballo con special training ...

Il charleston infranse tutte le regole dei balli da sala di provenienza europea. Il suo passo consisteva nel gettare all’esterno le gambe con le punte dei piedi rivolte all’interno cercando di mantenere le ginocchia unite. Seguivano poi sgambettamenti velocissimi, contorsioni, salti, calci e tutto ciò che suggeriva il ritmo fortemente sincopato e swinging della musica jazz, sottolineato dal suono di un nuovo strumento a percussione annesso alla grancassa – spesso poi infatti chiamato charleston – costituito da due piatti di metallo posti uno sopra l’altro. Sembra che i primi a ballare una forma di charleston fossero stati gli scaricatori neri del porto dell’omonima città statunitense (Sud Carolina); si ispiravano ai movimenti che solitamente eseguivano per caricare o scaricare le merci dalle navi. Ma è possibile che questo modo di ballare avesse origini molto più lontane: alcuni studiosi infatti ne riconducono i movimenti di base alle danze propiziatorie delle tribù africane. La brillante idea di portare il nuovo ballo dalle banchine del porto di Charleston ai teatri di mezza America venne all’impresario George White, che nel 1923 lo inserì nel programma della rivista musicale “Runnin’ Wild”. Lo spettacolo, interpretato da una compagnia di artisti neri, fu presentato per la prima volta a Broadway e da lì fece il giro di tutte le città del Sud degli Stati Uniti. Il charleston eseguito dai cantanti-ballerini del “chorus” di White non prevedeva alcun accompagnamento musicale: la scansione ritmica era data dal battito delle mani e da quello dei piedi sul pavimento. Durante lo stesso anno Ned Wayburn, direttore artistico della compagnia di Florenz Ziegfeld, introdusse un numero di charleston in “Follies 1923”, in scena al New Amsterdam Theatre di New York.

Charleston, 1920s | Ballo charleston, Storia della moda, Stile anni 20

Il 1925 fu anche l’anno della diffusione del charleston in Europa. La canzone “Yes sir! That’s my baby”, che allegava al disco i passi e le figure del ballo, fece il giro del mondo; la versione italiana, nota come “Lola, cosa impari a scuola”, scatenò una tale frenesia che il Ministero della guerra vietò agli ufficiali di ballarlo perché inconciliabile con il comportamento dignitoso imposto dalla divisa.

A Parigi la “charleston mania” fu portata dalla “Revue Negre” di N. Sissle, in scena al Théâtre des Champs-Eliséees: nel ruolo di solisti si esibivano Louis Douglas e Joséphine Baker, ormai soprannominata “Venere Nera” per la sua esotica bellezza e per la grande sensualità che emanava. Aggressiva, trasgressiva e al tempo stesso raffinata, ballava e contava a ritmo di “Yes, We Have no Banana” con addosso soltanto un gonnellino di banane. Dopo l’esplosione del charleston a Parigi fu la volta dell’Inghilterra. Nel luglio 1925 il Dancing Times organizzò un “tè danzante” allo scopo di insegnare ai maestri inglesi la tecnica del nuovo ballo. Il riscontro con il pubblico apparve travolgente: gli inglesi furono colti da una frenesia anche maggiore dei parigini. Si ballava per le strade e nelle piazze, spesso provocando ingorghi di traffico; a Londra, nella nota Piccadilly Circus, poteva persino capitare di assistere a esibizioni improvvisate sui tetti delle auto all’insegna dei più frenetici sgambettamenti: il ritmo era quello di “I’d Rather Charleston”, il pezzo più in voga allora. Quando, appeso all’ingresso di molte sale da ballo pubbliche, cominciò a comparire un cartello con la sigla P.C.Q. – “Please Charleston Quite”, nacque il flat charleston, una versione molto più tranquilla. A scagliarsi violentemente contro il nuovo ballo erano in molti – il Daily Mail arrivò persino a definirlo “una reminiscenza dei riti orgiastici dei neri” – ma sicuramente meno di quanti amavano ballarlo: da un lato c’erano i soliti benpensanti che lo condannavano per motivi di pubblica decenza ritenendolo volgare e degenerato; dall’altro c’era chi, avendo a cuore la salute pubblica, fisica e “mentale” dei propri concittadini, lo denunciava in quanto pericoloso per le articolazioni a causa della innaturale posizione del corpo che imponeva ai ballerini. https://it.wikipedia.org/wiki/Charleston_(ballo)

Tè per due (Tea for Two) è un film del 1950 diretto da David Butler e interpretato da Doris DayGordon MacRaeEve ArdenS.Z. Sakall. Nanette è una ragazza molto ricca che prende lezioni di canto e di ballo, aspirando a diventare una star del teatro musicale. Siamo nel 1929 e la crisi di Wall Street è alle porte. Suo zio J. Maxwell Bloomhaus, che finora ha investito molto oculatamente il patrimonio di Nanette, comincia a fare degli investimenti azzardati. Nanette, confidando nei suoi mezzi, decide di finanziare con 25.000 dollari la rivista del produttore Larry Blair che le promette una parte importante nello show.

#LAlberodelleIdeeLuoghi: L’ISOLA DI VIVARA

L’isola di Vivara è una piccola isola del golfo di Napoli, di proprietà privata, appartenente al gruppo delle isole Flegree e posta tra Procida, a cui è unita da un ponte, e Ischia.

L’isola misura circa 0,4 km² e ha un perimetro di circa 3 km con una forma a mezzaluna; il punto più elevato misura 110 metri sul livello del mare ed è situato al centro dell’isolotto.

Vivara è sottoposta alla giurisdizione amministrativa del Comune di Procida, cui è collegata da un ponte non carrozzabile che sostiene la condotta idrica che rifornisce Ischia. È attualmente disabitata ed è una riserva naturale statale. Il suo litorale è inoltre compreso nell’Area marina protetta Regno di Nettuno.

L’isola costituisce il margine occidentale di un cratere vulcanico originatosi circa 55000 anni fa, oggi sommerso, delimitato sul lato orientale dal promontorio di Santa Margherita nell’isola di Procida. Sicuramente ancora in epoca romana Vivara era collegata all’isola di Procida da una stretta falesia, oggi scomparsa, sul lato settentrionale del cratere. Lo specchio d’acqua circolare corrispondente al cratere, compreso tra Vivara e Procida è denominato golfo di Genito.

Il ponte sull'Isola di Vivara è completo: previste visite per l ...

L’esistenza di un centro dell’età del bronzo con frammenti di ceramiche importate dall’Egeo fu accertata dall’archeologo di origine tedesca Giorgio Buchner, negli anni trenta del ‘900. Dal 1975 circa vi si svolgono campagne di scavo, in una prima fase curate dall’Università degli Studi di Roma “Sapienza”. Attualmente le ricerche sono a cura dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Gli scavi hanno documentato numerosi aspetti dell’insediamento databile tra il XVII e il XIV secolo a.C. (aspetti culturali di Punta Mezzogiorno, protoappenninico di Punta d’Alaca, appenninico). Campagne di esplorazione sottomarina hanno inoltre permesso di scoprire tracce di popolamento fino a 6-9 metri di profondità, indice di un abbassamento del suolo databile intorno alla fine dello stesso periodo e riconducibile, molto probabilmente, a dinamiche di bradisismo simili a quelle di altre aree dei Campi Flegrei (vedi Baia). L’isola doveva dunque essere più estesa di quanto sia oggi.

L’intera superficie di Vivara è ricoperta da un tipo di vegetazione spontanea conosciuta come macchia mediterranea, costituita da innumerevoli piante dalle mille tonalità di verde, di un metro e più di altezza, con foglie piccole e coriacee. Questo tipo di formazione vegetale si è affermata su Vivara in seguito all’intenso e prolungato sfruttamento agricolo che aveva quasi completamente distrutto l’originaria vegetazione. Non è difficile ipotizzare quale composizione floristica ci fosse prima che l’isolotto fosse quasi completamente raso al suolo per mettere a coltura la terra con oliveti e vigneti: roverella e leccio dovevano essere le piante che maggiormente si incontravano in questo paesaggio mediterraneo privo, fin dall’epoca micenea, di disturbo antropico, e poi preservato per tutto il settecento, dal punto di vista vegetazionale, grazie alla bramosia di caccia dei Borbone. Ma verso la prima metà dell’ottocento le cose cambiano radicalmente. L’isolotto viene ceduto dalla corona borbonica al Comune di Procida, che a sua volta lo cede in enfiteusi ad un privato il quale mette a coltura la terra con olivi e vigneti. Furono piantate migliaia di ulivi e diverse aree a nord e sud est furono adibite alla coltura della vite. Diverse zone furono ampiamente terrazzate per consentirne la coltivazione e ovviamente furono tagliati ampi tratti di foresta di querce. Il terreno non più protetto dalla copiosa copertura vegetale inevitabilmente perse parte del suo cospicuo spessore e molte zone subirono il dilavamento. Questa situazione si protrasse per tutto l’ottocento e parte del primo novecento. Ma nella seconda metà del novecento, a seguito dell’abbandono dei coltivi, la vegetazione ha la possibilità di ricolonizzare il territorio ampiamente sfruttato e lo fa con i primi elementi colonizzatori tipici della macchia mediterranea: ginestre, cisti e molte leguminose. https://it.wikipedia.org/wiki/Isola_di_Vivara

Procidani e non solo attendevano questo giorno da undici anni. Precisamente dal 2002, da quando l’isolotto di Vivara aveva chiuso ad ogni accesso pubblico, pur essendo  una riserva di stato. Oggi però il vincolo di “off limits” è sempre più debole e si avvicina una riapertura a cittadini e turisti, già dalla settimana di Pasqua. Venerdì 22 è stato ufficializzato un protocollo d’intesa per la sua gestione pubblico-privata, firmato da Maurizio Marinella, l’imprenditore napoletano presidente della riserva, e da Vincenzo Capezzuto, sindaco di Procida. Vivara riaprirà per tre giorni, da sabato 30 marzo a lunedì primo aprile, accogliendo i visitatori (in tre gruppi da 40 persone al giorno, prenotazioni allo 081 810 9259) per percorsi guidati gratuiti. Mediterraneo”. Naturalmente, trattandosi un’area protetta, gli ingressi saranno sempre a numero chiuso, probabilmente pagando una cifra simbolica. Vivara è un esempio unico in Europa di area verde incontaminata e priva di qualsiasi presenza o attività umana (a parte una casina di caccia di epoca borbonica). Tutt’oggi l’accesso è vietato, principalmente a causa di strangolatore burocratiche. (paolo de luca) https://napoli.repubblica.it/cronaca/2013/03/23/foto/riapre_dopo_undici_anni_il_paradiso_di_vivara-55179925/1/

#ascoltando: Sal Nistico e Tullio de Piscopo – Little Italy

#LAlberodelleIdeeLuoghi: L’arcipelago delle Sporadi Meridionali

L’arcipelago delle Sporadi Meridionali è un gruppo di isole situate nel mar Egeo, in Grecia di fronte alle coste turche.

Le Sporadi Meridionali appartengono alle isole greche.

Le isole principali sono Samo, Icaria e le isole del Dodecaneso (Rodi, Coo, Scarpanto, Calimno, Lero, Stampalia, Patmo, Caso, Nisiro, Piscopi, Calchi, Simi, Castelrosso e Alinnia).

Samo è la patria di Epicuro, Aristarco, Pitagora ed Escrione. Vi soggiornarono Anacreonte ospite di Policrate II e Ibico ospite di Policrate I

L’espressione portare vasi a Samo significa fare una cosa inutile dato che a Samo vi era una grande produzione di vasi FOTO: La spiaggia di Psalida

Rodi, dal greco Ῥόδος (pronuncia: Rhòdos), è la più grande delle isole del Dodecaneso e la più orientale delle maggiori isole dell’Egeo; il versante sudorientale è bagnato dal Mar di Levante. Storicamente, era famosa per il Colosso di Rodi, statua del dio Helios, una delle sette meraviglie del mondo antico. La città medievale è considerata patrimonio dell’umanità.

Prassonissi, dove si incontrano Mar Mediterraneo e Mar Egeo

Petaloudes, in italiano nota come: Valle delle Farfalle (in greco Πεταλούδες, che significa appunto “farfalle”), è un comune della Grecia nella periferia dell’Egeo Meridionale (unità periferica di Rodi) con 12.133 abitanti al censimento 2001

Petaloudes – Veduta

Stampalia (in greco Αστυπάλαια, Astypalaia, probabilmente dall’espressione άστυ + παλαιός, àstu + palaiòs, vale a dire “città antica”) è un’isola dell’Egeo. È l’isola più occidentale del Dodecaneso. Geograficamente e storicamente è anche considerata parte delle Cicladi. L’isola costituisce un comune della periferia dell’Egeo Meridionale (unità periferica di Kalymnos) con 1.238 abitanti al censimento 2001. Chora è il centro maggiore, costruita ad anfiteatro intorno alla collina su cui sorge il castello veneziano. Ha un aspetto tipicamente cicladico con candide case e qualche mulino a vento. Chora è il centro maggiore, costruita ad anfiteatro intorno alla collina su cui sorge il castello veneziano. Ha un aspetto tipicamente cicladico con candide case e qualche mulino a vento.

Nisiro è contornata da alcune isolette che formano un arcipelago in miniatura, da cui spicca Gyali. L’isola è in massima parte montuosa. Le sue coste rocciose ospitano litorali fatti di ciottoli neri e ghiaia con qualche rara eccezione. L’antico nome dell’isola era Porfiris. Una voce importante nell’economia locale è l’estrazione della pietra pomice nell’isoletta di Gyali. Palaiocastro è l’acropoli dell’antica città di Nisiro a poca distanza dal porto di Mandraki con resti di mura ciclopiche costruite con materiale lavico. Alcuni dei reperti si trovano nel municipio di Mandraki.

Píscopi (dal greco Episkopi, Επισκοπή; in greco antico e moderno Τήλος, Tilos), è un’isola dell’Egeo appartenente geograficamente al Dodecaneso. L’isola ha subito un progressivo decremento demografico dagli anni seguenti la II guerra mondiale. A quei tempi contava 2500 abitanti e 9 villaggi. Oggi conta solo due centri abitati. I suoi abitanti non hanno mai praticato la pesca preferendo dedicarsi a lavori agricoli.

Simi (in greco Σύμη, Symi), detta Sime nell’antichità, è un’isola greca del Mar Egeo nell’arcipelago del Dodecaneso, situata 41 km a nord dalle coste dell’isola di Rodi, si estende su una superficie di 58,1 km². L’isola conserva oltre trecento tra monasteri e chiese. Le chiese più importanti sono: Profeta Elias, San Giovanni di Tsagkrias, San Procopio, Madonna Myrtariotissa, Roukouniotis, Santa Marina e il Monastero di San Michele Arcangelo di Panormitis.  https://it.wikipedia.org/wiki/Sporadi

#ascoltando: Breathe – Douglas Spotted Eagle

#LAlberodelleIdeeLuoghi: Ratisbona

Ratisbona (in tedescoRegensburg, in bavareseRengschburg, letteralmente: «fortezza sul Regen», in cecoŘezno) è una città extracircondariale della Baviera.

Dal 13 luglio 2006 il centro storico della città fa parte del patrimonio dell’umanità dell’UNESCO.

Ratisbona sorge nella parte centrale della Baviera (sud est della Germania), nell’alto corso del Danubio presso la confluenza con il suo affluente Regen, a breve distanza dai rilievi della Selva Bavarese e della Selva Boema a est e del Giura francone a nordovest; sorge a una quota di 342 metri sul livello del mare.

lo scenografico interno rococò dell’Alte Kapelle.

Dal punto di vista amministrativo, la città di Ratisbona confina con i comuni di LappersdorfZeitlarnWenzenbachTegernheimBarbingNeutraublingObertraublingPentlingSinzing e Pettendorf, tutti facenti parte del suo circondario.

Il primo insediamento risale all’età della pietra. Il nome della città odierna deriva dal celtico Radasbona, che era riferito a un insediamento nelle vicinanze. Nell’anno 90, i Romani vi costruirono un piccolo forte, appartenente al sistema difensivo del limes germanico-retico, mentre nel 179 venne edificata una fortezza legionaria per la Legio III Italica sotto l’impero di Marco AurelioCastra Regina (il nome romano di Ratisbona) divenne la capitale della Rezia; tra il 356 e il 358 un’invasione di Iutungi e di Alamanni la distrusse. Nell’epoca merovingia Ratisbona era la sede dei duchi Agilolfingi e la capitale della Baviera. Nel 739 Bonifacio di Magonza, considerato il patrono della nazione tedesca, fondò la diocesi di Ratisbona. La città raggiunse il suo apice politico e economico nel XII e XIII secolo, quando si trovò all’incrocio di grandi strade commerciali molto importanti. Da questo tempo datano i principali monumenti della città, lo Steinerne Brücke (ponte di pietra con una lunghezza di 310 metri sul Danubio, costruito tra 1135 e 1146), la cattedrale gotica (consacrata nel 1276), l’Altes Rathaus (Antico palazzo municipale) e le torri patrizie.

Nel 1245 l’imperatore Federico II elevò Ratisbona a Freie Reichsstadt (città libera dell’Impero) e le diede una certa autonomia politica nell’impero. In seguito Ratisbona diminuì d’importanza rispetto ad altre grandi città bavaresi come Norimberga e Augusta. Nel corso dei secoli seguenti numerosi Reichstag (assemblee dei principi del Sacro Romano Impero) vi ebbero luogo, in particolare la Dieta del 1541. Dal 1663 la città fu persino la sede unica di questa istituzione permanente (Immerwährender Reichstag). Fu inoltre a Ratisbona dove l’Impero si sciolse sotto la pressione delle truppe napoleoniche nel 1806 (Reichsdeputationshauptschluss). Nel 1810 la città venne annessa dal nuovo regno di Baviera, creato da Napoleone. Cadde al livello di città provinciale per più di 150 anni. https://it.wikipedia.org/wiki/Ratisbona